Le persecuzioni televisive difficilmente ci permettono, anche se lo volessimo, di restare interamente digiuni intorno alla multiforme, ma nel complesso monotona, tipologia sotto la quale si presenta il flagello di Dio del “Cantautore”. Parlo , beninteso, di quel cantautorismo (o canzonismo) che allarga i vuoti dell’anima e del cervello e dà il suo contributo a promuovere una nuova antropologia sbracata, becera, canagliesca e strafottente. Oppure c’è l’altro cantautorismo, quello progressista e dissacratorio, quello caro ai “padroni del pensiero” che, nell’applaudirlo, fanno vanto ed esibizione della loro intellettualità d’avanguardia. L’incontro/concerto con Claudio Chieffo è una cosa totalmente diversa e, bisogna dirlo, sorprendente. Intanto niente divismo, nel modo più assoluto. Il che non significa solo che Chieffo non ha l’aria di recitare una parte, ma soprattutto che non si sente diverso da te e che anzi canta a nome tuo. E non sono soltanto parole o intenzioni : è proprio vero; mentre ascolti sei, davvero, direi quasi, costretto a cercare qualcosa di te nella canzone (e in te stesso) per un fenomeno di coinvolgimento che ti personalizza di fronte a lui che canta, che ti lascia essere te stesso perché non ti impone un idolo, ma ti propone un interlocutore che vuol esserti e si fa sentire amico. Una qualità sorprendente delle sue canzoni è l’espressività dei testi; una espressività che si potrebbe definire da naìf per la ricchezza di contenuti umani offerta in versi elementari e disadorni; in alcuni di questi la poesia e la preghiera fanno un’unica cosa. C’è della musica che fin dal primo ascolto ti dice tutto quello che ha da dire; la senti una seconda volta e non ha più alcun mistero da svelarti, ti ha già saziato. Ma quando una musica, come quella di Chieffo, continua, per successive audizioni, a donarsi con sempre maggiore espressività ed incisività e acquista via via profondità, ricchezza e forza di suggestione restando sempre nuova e capace di stupirti, allora a me pare che sia buona musica. Il respiro religioso dei suoi testi (e della musica: bisognerà tener presente che solo astrattamente se ne può parlare come di due cose distinte) si nutre di una pensosità e di un abbandono “naturali”, così che possono sopportare una lettura pre-cristiana che penetra anche nel cuore di chi non sia cristiano; purché concepisca il canto come un momento di esperienza totale, espressione e confessione di umanità colta alle radici dell’essere (anima e corpo) con tale sentimento di confidenza e di attesa da darti, a volte, l’impressione della vertigine come quando ti capita di affacciarti sul Mistero.
Luciano Marigo - Scrittore , Corriere di Vicenza , 1976
Il fatto è che le canzoni di Claudio Chieffo di tutto sanno meno che di sagrestia. E questo per due motivi. Primo , perché parlano dell’uomo all’uomo, l’uomo in cui si agiti anche solo per un istante il fondo della questione, cioè il problema della sua verità e del suo destino ( al di là di ogni etichetta ideologica e confessionale ). Secondo, perché il punto di origine, il getto di ispirazione di questo cantautore vagans non è una idea, come programmaticamente facevano gli impegnati di ieri, né una suggestione o un sentimento solo, come erraticamente fanno gli spiantati ( cioè gli orfani del ’68 ) oggi, ma un incontro, la realtà di un rapporto strutturale, operante a livello “antropologico” , con quella realtà di Chiesa che va sotto il nome pluricomprensivo di “movimenti”. E’ questa concretezza, questa fissazione ombelicale che rende emozionante, fisicamente interattivo il canto di Chieffo. Perché gli permette di parlare dell’uomo e di Dio, del peccato dell’uomo e del perdono di Dio, e poi dei figli del creato, della donna e dell’amore della casa, del mare, del cavaliere e del suo cavallo degli occhi di Dio, delle favole e degli anni che passano da uomo, in piedi. Davanti a sé e agli altri, con uno sguardo da uomo. Perché altri possano guardarlo ed ascoltarlo da uomini. Catalogo del Meeting di Rimini 1988. Ma le canzoni di Claudio Chieffo le si ama anche per altro. C’è in esse qualcosa che definirei un quid inafferrabile che percuote emotivamente, un quid che non è strettamente riconducibile a grandezza musicale o poetica, è una genialità che c’è e non si discute e, come per tutti i canzonettari di razza (e Chieffo certamente lo è ) non è qualcosa di programmabile, ma, quando c’è, è autentico conforto, provocazione, come testimoniano i tanti amici che, nel tempo, gli hanno conquistato le sue canzoni. Massimo Bernardini, Il Sabato, 21 dicembre 1985
Parlare di Claudio vuol dire incontrare attraverso di lui il mio proprio dono, dunque parlare di lui è un’occasione che Dio mi ha dato per fare ulteriore chiarezza in me stesso. D’altra parte la creazione dell’arte è un tutto, e per tutti ha la stessa dinamica: vuol dire dover morire, subire una morte, una croce per lasciar posto alla gloria. Il dono di Dio è la creatività e non c’è nessuna differenza tra il fare una canzonetta o il divenire Stravinskij: è la stessa sofferenza e la stessa gloria. Perché nasca il figlio dello spirito, che è l’opera d’arte, l’artista deve passare per una sproporzione dolorosa, uno svuotamento, in modo che lo spirito abbia la libertà di far nascere il figlio, l’opera d’arte. Nell’attimo in cui la mia opera è concepita in me, io riconosco il vuoto che sono diventato per un attimo e poi, gravido, non ho che da attendere l’ora del parto. In Claudio, concepimento, gravidanza e parto avvengono tutti insieme e non nella privacy del suo studio, come è per me, ma davanti alla gente quando canta in concerto. Claudio muore di fronte al mondo, alla curiosità del mondo, alla sua cattiveria come alla sua bontà, al punto che il mondo, se vuole, può anche limitarsi a godere del suo morire, senza neanche prestare attenzione a quel che sta cantando ( che grande sofferenza deve essere questa ). Ciò crea in lui una tensione massacrante, perché il canto non è mai disgiunto dal morire, ma nasce proprio dentro al suo morire. E’ uno spettacolo cruento: Claudio deve aver fede proprio perché dentro al suo morire, e questa è la cosa difficile, più soffre e maggiore è la garanzia che sarà la gloria ad erompere, gloria che sarà il “canto nato”, cioè il canto come unicum, e non come una routine, come canzone che ogni volta è cantata come se fosse la prima e l’ultima. Anche questa è una prova terribile. Come è terribile per lui non potersi fermare durante un concerto ( diversamente da me che posso fermare quando voglio il mio lavoro ad un quadro ) nel creare il suo canto. Ci vuole grande fede e passione per coloro che l’ascoltano perché egli accetti tutto questo.
William Congdon, Il Sabato, 21 dicembre 1985
Nelle canzoni di Claudio c’è un’onestà, una pulizia, un amore naìf che fa pensare. Siamo profondamente diversi, non solo per le sicurezze che lui ha e che io non ho, ma soprattutto perché nelle sue canzoni lui non fa mistero delle sue certezze. Io, devo dirlo, sono nemico di questo genere di canzoni, così chiare, limpide, senza incrinazioni che non conducano, alla fine, al centro da cui sono partite. E quelle stesse canzoni, le sue più famose e popolari, quando le ho sentite cantare in coro dalla gente mi sono sempre sembrate un po’ stucchevoli… Ma cantate da lui, devo riconoscerlo, hanno il loro spazio, riprendono tutta la loro credibilità. Certo allora non è un problema di mancanza di credibilità della sua gente, semmai della mia diffidenza “ di pelle” da tutto quanto non è individuale, solitario. In lui, peraltro, nell’attenzione con cui ha seguito in tutti questi anni il mio lavoro, ritrovo quell’affetto che ho scoperto al Meeting di Rimini, quell’accoglienza che forse mi ha stupito al di sopra di ogni altra cosa. Di diverso in lui c’è forse una netta mancanza di “ambizioni”, una non imprenditorialità che tuttavia è anche il segno della sua profonda integrità. Non è distacco dal commercio, dall’industria, per convinzioni personali, e neppure per ragioni ideologiche: è qualcosa che nasce dal profondo, un desiderio di non svendere frettolosamente quello che in questi anni ha tanto faticosamente conquistato. Gli auguro altri anni di lavoro, di canzoni, di certezze, e non posso che ringraziarlo per la simpatia con cui ha sempre guardato i miei dubbi. Giorgio Gaber, Il Sabato, 21 dicembre 1985
Si dice che per fare un buon concerto occorrano diversi ingredienti: buona musica, buoni testi, un bravo interprete e soprattutto una buona dose di feeling… la musica di Claudio Chieffo è fresca, onesta, pulita, sempre ispirata, la più recente come quella delle sue prime esperienze giovanili. I testi? Sono le canzoni di un poeta. Di un vero poeta che, con il canto, prega. Semplici, pieni di una luce intensa che si riverbera nel cuore altrui. L’interprete? Con la sua bella voce virile e vellutata a un tempo, piena di sobria dolcezza non ha davvero nulla da invidiare ai più celebri cantautori, semmai solo qualcosa da insegnare loro…Quanto al sentimento, ma lui direbbe speranza, perché le sue sono davvero le canzoni della speranza ( ma aggiungiamo anche della gioia; e quanta ce n’è raccolta dentro ), eccola fin dal momento in cui, a luci smorzate, attacca quella “ballata della società” che è diventata un po’ l’inno per farsi subito riconoscere. Domenico Rigotti, Avvenire, 1985
Il suo guaio maggiore (bisogna pur dirle queste cose, anche a costo di apparire integralisti in quei settori che detengono il monopolio della cultura ) è quello di portare una testimonianza squisitamente cristiana parlando dell’uomo, del senso della vita, del tempo, dell’amore, del dolore, della fatica, dei rapporti tra padre e figlio, dell’amicizia, della libertà e della giustizia. Ma soprattutto presentandosi come uomo di fede, convinto che solo questa è capace di cambiare la nostra vita e il nostro modo di essere tra la gente. Ha detto Andrej Sinjavskij: “Vorrei nella mia vita aver fatto una canzone che esprimesse così bene il bisogno di liberazione di un popolo!”. Si riferiva a “Il popolo canta la sua liberazione” di Claudio Chieffo. Madre, maggio 1980 – editoriale. Il senso della festa, infatti, caratterizza le canzoni di Claudio Chieffo, festa che è anche soltanto attesa di quella più grande, che è tensione ad una gloria , anche se la guerra impazza, anche se l’Imperatore rischia di opprimere Martino , anche se la casa è piena di contrasti e il tempo perduto sembra talora gravare sul cuore. Qui la parola diventa suono evocativo come la musica e la musica “racconta” come le parole, semplici e senza equivoco. Fanny Monti, Il Resto del Carlino, 9 marzo 1980