Paola Scaglione, 2006, Milano, Edizioni Ares, 280 pp.
Contributi di Jesús Carrascosa, Luigi Negri, Paolo Vites. Consulenza di Riccardo Caniato. Foto di F. Tomassini, F. Brunetti, W. Scudellari, C. Chieffo, AA.VV. Foto e progetto di copertina F. Scheda.
È il libro-intervista al cantautore Claudio Chieffo, scritto circa un anno prima della sua scomparsa da Paola Scaglione (giornalista e saggista italiana, i cui studi si sono concentrati sui libri dello scrittore cattolico Eugenio Corti, amico dello stesso Claudio) che riunisce per la prima volta quasi tutte le sue intramontabili canzoni (manca solo “La sorgente” scritta nel 2007, pochi mesi prima di morire).
Alcuni interventi:
«Sono musica e poesia i canti, nettare del fiore della vita, sono ciò che meglio esprime il dolore e la gioia di un popolo, le sue fatiche, i suoi ideali, i suoi desideri. È così che i tuoi canti sono diventati la luce in mezzo alla nebbia della vita».
Jesús Carrascosa
«Nelle canzoni di Claudio c’è un’onestà, una pulizia, un amore naìf che fa pensare. Siamo profondamente diversi, non solo per le sicurezze che lui ha e che io non ho, ma soprattutto perché nelle sue canzoni lui non fa mistero delle sue certezze».
Giorgio Gaber
«Come mi confidava spesso don Giussani, tu sei stato il poeta e il cantore della nostra amicizia. Molte tue canzoni hanno, in un modo quasi profetico, anticipato alcuni passaggi “nodali” del nostro cammino e tutte le tue canzoni hanno illuminato, e quindi reso più comprensibili a tutto il nostro popolo, i passaggi che, sulla strada di Cristo, don Gius ci ha segnato per cinquant’anni, con passione totale e fedeltà indefettibile».
Mons. Luigi Negri
«Ho avuto la percezione che nella sua opera ci fosse proprio l’uomo: non c’è il tentativo di descrivere sentimenti o emozioni, c’è essenzialmente l’espressione di questi. Quanto più profondamente ho conosciuto Claudio, tanto più ho compreso che la musica è quest’uomo e quest’uomo è la musica».
David Horowitz
«Poco importa la veste sonora, se una canzone è veramente bella. Anzi, vale esattamete il contrario: una canzone è veramente bella se si regge da sola, senza ccessivi arrangiamenti o sovraproduzioni. Perché Claudio Chieffo, caso rarissimo e quasi unico (mi vengono in mente i soli Fabrizio De André e Giorgio Gaber), è un originale».
Paolo Vites
Meglio di ogni altra parola per introdurre questo libro è l’intervista rilasciata da Chieffo a “Famiglia Cristiana” n. 38 del settembre 2006, a cura di Alfredo Tradigo:
« LA CASA DEL MELOGRANO - Esce un libro con tutte le canzoni e la storia di uno dei cantautori cattolici più amati e cantati nelle comunità cristiane.
“In una piccola casa nel cuore della città / c’è un giardino nascosto che nessuno si può immaginare / nel giardino c’è un melograno coi rami in fiore... / Devi dirmi dov’è questa casa dei fiori: / è da sempre che cerco la casa dove posso tornare”.
Così ha cantato Claudio Chieffo lo scorso agosto, al Meeting di Rimini, davanti a un popolo che da sempre lo ama. Dopo averlo ascoltato con commozione – una commozione più forte sapendo della malattia che lo affatica – gli abbiamo chiesto anche noi dov’è questa casa di cui ci ha fatto sentire nostalgia.
E abbiamo scoperto che è la sua casa di Forlì, dove vive con la moglie e i figli, una semplice villetta anni ’50 nascosta tra le altre in un quartiere nella zona di San Mercuriale. Cantautore cattolico tra i più noti in Italia (chi non ricorda la canzone Lui mi ha dato?), Claudio ci aspetta seduto nel piccolo giardino con il sorriso pronto di un amico, anche se è la prima volta che ci incontriamo. Entriamo e ci sediamo con lui sotto il melograno.
– Cosa rappresenta per te, Claudio, questa casa?
La casa è la famiglia, punto di partenza e di arrivo, luogo della comunione e non della semplice convivenza. La casa è uno degli archetipi che è nel cuore di ogni uomo: finché uno non ha trovato ciò che corrisponde al suo desiderio non può fermarsi nella vita. Questo desiderio è nel cuore di tutti. La casa è anche punto d’apertura a orizzonti nuovi. All’amico Giorgio Gaber, che mi rimproverava di avere troppe certezze, una volta risposi: “Guarda che di certezze ne ho una sola: la misericordia di Dio che è più grande del male che io e te possiamo fare. E che c’è un luogo di pace anche per te!”. Gaber era un uomo tormentato e a lui ho dedicato proprio la Canzone del melograno, che è il dialogo tra Cristo e un viandante.
– Mi colpisce quello che dici sulla famiglia: oggi, a volte, si rischia di rinunciare alla vera comunione matrimoniale per convivere...
Occorre ricentrare il punto per cui due persone stanno insieme. Le mie canzoni nascono tutte da qui, dalla comunione, da questa appartenenza alla famiglia e al popolo più grande della Chiesa. La casa poi per me, con la sua fisicità, è quasi un sacramento.
– Al Meeting di Rimini è stato presentato il libro di Paola Scaglione La mia voce e le Tue parole, che racconta la tua storia e raccoglie i testi delle tue canzoni. Al concerto hai detto che questo libro ti ha fatto capire meglio le tue canzoni...
È vero. Sono poche le persone che mi hanno fatto capire meglio chi sono io. La prima fu don Luigi Giussani: a 16 anni, appena potevo andavo a trovarlo a Milano per fargli sentire le prime canzoni. Era per me una festa. Ascoltando La ballata dell’uomo vecchio mi disse: “Ho capito chi sei”. Allora rimasi con lui, non lo abbandonai più e questo criterio l’ho usato con tutti quelli che mi hanno aiutato. Fu così con il musicista David Horowitz, che si è innamorato delle mie canzoni e ha voluto arrangiarle. Così è stato con altri amici, come Paola Scaglione, che ha scritto questo libro: un altro ti dice qualcosa che non sapevi, ti spiazza e ti aiuta a camminare, a non fermarti mai.
– Ogni tua canzone, come si vede nel libro, è dedicata a qualcuno...
Sì, dietro ogni canzone c’è sempre un volto o una situazione. Per esempio Favola la dedicai ad Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate rosse. Possono essere una gioia o un dolore vissuti da un amico. La parola più importante per me è sempre stata la parola “condividere”. Oggi, sapendomi ammalato, mi telefonano molti ammalati anche solo per parlarmi, per essere ascoltati. Mi capita anche che genitori che non mi conoscono trovino il mio telefono nell’agenda del figlio che è appena mancato e mi chiedano di venire a cantare per lui al funerale. È bello e terribile insieme, ma non posso dire di no. Ci vado. E canto. Perché una canzone, se è vera, deve esserlo anche di fronte alla morte. Ho cantato negli anni ’80 nei Paesi dell’Est europeo prima della caduta del comunismo: Polonia Cecoslovacchia, ex Yugosalvia, concerti clandestini in cantine e granai senza corrente elettrica, tra gente che rischiava solo per sentirmi cantare.
– E in Italia?
La persecuzione a volte è stata addirittura peggiore che nei Paesi ex comunisti. Ho fatto sei concerti con Francesco Guccini: una volta mi ha cambiato all’improvviso la scaletta per eludere alcune mie domande sul senso della vita. Un’altra volta fu lo stesso Gaber a dovermi difendere dagli insulti. Io la chiamo la sindrome di Natanaele: può mai venire qualcosa di buono da Nazaret, cioè dal tuo Paese? Ma questa fatica è la condizione per vivere la “vocazione”, altra parola-chiave per me: Dio, cosa vuoi? Rispondere giorno dopo giorno è vincere l’avventura e la scommessa della vita.
– Al concerto del Meeting di quest’anno avevi il rosario al polso, e la tua canzone Stella del mattino è stata definita dal cardinal Biffi la Salve Regina del terzo millennio...
Prego sempre la vergine Maria, ma non mi piacciono le sdolcinature mariane. Non avrei mai osato dedicare una canzone a Maria. Finché a Lourdes, in un momento di difficoltà, sono riuscito a trasformare la mia rabbia in dolore e ho scritto Stella del mattino.
– Con i tuoi concerti sei stato presente nei luoghi più drammatici, da Sarajevo a New York e a Madrid dove è nata l’altra tua canzone mariana, Reina de la paz...
Sono corso subito a Madrid dopo l’attentato perché lì ho molti amici: alla stazione di Atocha, tra lumini e fiori, bestemmie e insulti sui muri, ho trovato in un angolo una Madonnina con la scritta: “Perché?”. Ne è nata Reina de la paz, con l’aiuto di poeti e musicisti spagnoli.
– Le tue canzoni il più delle volte esprimono senso di lontananza, nostalgia, desiderio, sentimenti che le rendono subito familiari, immediate...
Una canzone, se è vera, deve arrivare al cuore, in casa tua come a migliaia di chilometri di distanza. In Kazakhstan ho tenuto concerti negli ex gulag: detenute e secondini cantavano insieme con un semplice “la la la la”, partecipando alla melodia pur senza capire la parole».